L’Italia non è patria: tanto meno il 25 aprile, forse ai mondiali

L’Italia non è terra di patrioti. Non lo è mai stata. C’è chi diceva, non appena la penisola fu riunita in un unico regno: “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani” e chi parlava di Italia come semplice “espressione geografica”. A Manzoni spettò il compito di “sciacquare i panni nell’Arno” perché la lingua, se pur gloriosa – di Dante, Petrarca e Boccaccio – non era certo masticata dal popolo. In realtà, non è vero che l’Italia, come nazione, non esistesse. L’humus condiviso da Bolzano a Messina c’era. C’era già un universo di valori condiviso, a prescindere dal fatto che probabilmente la comunicazione linguistica fosse una barriera. Durante la Seconda Guerra Mondiale, mio nonno mi raccontava che nonostante ognuno come lingua madre avesse il suo dialetto, la sera sul cacciatorpediniere ci si riuniva per tirare giù la bandiera e si diceva una preghiera per le proprie famiglie. Le stesse parole, gli stessi sentimenti, la stessa visione di società e organizzazione della vita. Un popolo c’era sebbene pochi decenni prima si era ancora divisi in un mosaico di staterelli.

La patria esiste, non è un miraggio, ha le parole di Mazzini o le pennellate di Hayez, ma è un fuoco che va alimentato altrimenti si spegne.

Per questo dico che l’Italia non è terra di patrioti perché, nella sua giovane vita di Stato nazionale, le circostanze non hanno mai accresciuto l’unità. L’Italia è quella terra di campanilismi, signorie e repubbliche, alleate e nemiche ma mai riunite. L’Italia è terra nata da uno scippo sabaudo, violento e mosso dall’alto.
L’Italia è quella terra che nei primi del 900 conosce lo Stato etico fascista e che nella seconda metà del 900 è dominata dai poli, democristiano e comunista, dalle radici non nazionali ma universalistiche.
L’Italia è quella terra che non festeggia il 4 novembre, vittoria della Prima Guerra Mondiale. Non festeggia il 17 marzo, nascita del Regno d’Italia. Festeggia, però, il 25 aprile ma senza una riconciliazione storica, senza fare luce su quella che fu la conseguente sanguinosa guerra civile ed esaltando solo gli attori che più che di nazione ambivano a rendere il paese uno Stato satellite sovietico (dimenticandosi non solo di chi rimase nell’esercito ma persino dei partigiani che però non abbracciavano l’ideale comunista, vedi ad esempio il partigiano Aldo Gastaldi, detto Bisagno). Una festa chiamata nazionale ma nelle cui piazze volano fischi a seconda del rappresentante istituzionale che parla.

Marco Gervasoni lo spiega bene: “Una festa che ricorda una guerra civile non potrà mai diventare condivisa, lo sapevano già gli antichi greci, che dopo le guerre civili mettevano in atto riti per dimenticare. Mentre qui si vuole sempre tenere vivo il ricordo, ma non a caso non esiste alcuna festa del genere in nessun paese dell’Europa occidentale. La Francia aveva qualcosa di simile, ma l’abolì all’inizio degli anni Settanta in segno di pace con la Germania di Bonn”.

L’Italia è quella terra, insomma, che non ha alcuna colpa se ritrova il suo senso di patria soltanto ai mondiali, quando gli azzurri tirano due calci al pallone e di fronte a un bicchiere di vino, si riesce a dire, per una volta tutti insieme, “Evviva l’Italia”.

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