Intervista a un sacerdote – studioso di lingue antiche e docente di archeologia e geografia biblica – che ritiene che l’espressione “Non indurci in tentazione” sia teologicamente corretta.
Partendo dal testo, il verbo greco usato nel vangelo significa indurre o abbandonare?
Il verbo greco εἰσενέγκῃς è formato da εἰσ che significa “in/verso/a” e da φέρω che per un’eccezione (mettiamola così, tanto per semplificare il discorso) diventa ενέγκῃς e che significa guidare/portare/condurre, pertanto letteralmente la parola greca si traduce in italiano con in-condurre ossia indurre.
Ma indurci è teologicamente corretto? È giusto ritenere che Dio ci metta alla prova?
Dio ci mette eccome alla prova perché noi funzioniamo così e dato che vuole farci crescere, non può che stimolare la nostra libertà, provocare la nostra capacità di scegliere, di spingerci ad una presa di posizione sempre più intenzionale, consapevole, voluta. Ed ecco, quindi, la necessità della prova, di una sfida, se si preferisce.
D’altronde Dio mise alla prova Abramo chiedendogli di sacrificare il figlio – l’unico che era riuscito ad avere, tra l’altro – e non è tutto ciò una sollecitazione che oltretutto porta in sé anche il rischio di un rifiuto?
Quindi le prove hanno un ruolo pedagogico?
Abramo superando quella prova si è ritrovato cambiato per sempre, con una capacità di fidarsi di Dio ancora più grande, esiste quindi un uso corretto delle tentazioni nelle quali, anche fosse il diavolo ad agire – sempre per concessione di Dio – uno si ritrova ancora più legato a Dio, se decide di superarla.
Si trova conferma di questo modo di pensare – forse poco naturale per l’uomo d’oggi – in due passi esemplificativi. Il primo è nella lettera ai Romani (8, 28): “Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”. L’altro è di Gesù stesso, pochi giorni prima della Sua crocifissione. Possiamo immaginare il Suo stato d’animo che gli fece dire: “Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!” (Giovanni 12, 27). A ben pensare, queste frasi di Gesù potrebbero essere state anche sulle labbra di Abramo.
In effetti Gesù nell’orto degli ulivi, quando chiede al Padre che gli si allontani il calice, sottintende che Dio lo abbia indotto in una prova e addirittura sulla croce poi dirà “Dio mio, perché mi hai abbandonato”, ma quando Gesù pronuncia quel non indurci nel discorso sulla montagna a cosa si riferisce?
Nella Bibbia vi sono diversi esempi di tentazioni per opera di Dio e Gesù quando insegna a pregare istituendo la preghiera del Padre Nostro si riferisce proprio alla concezione biblica. Quindi cambiare il testo non è renderlo più chiaro, ma è inventare un’altra preghiera, diversa dalla mentalità ebraica, dalla mentalità biblica e dalla mentalità di Gesù, dicendo una cosa anche accettabile ma che non rispecchia quella frase, quel testo e quel concetto.
Sembra di capire che con quell’indurre si salvi anche il nostro libero arbitrio?
Negare che Dio possa o debba tentare significherebbe che noi per principio non siamo liberi di scegliere, non avendo né una spinta ad abbandonare Dio né a risceglierlo in modo più maturo e consapevole.
Infatti, noi veniamo educati da Gesù a un atteggiamento umile in cui, data la nostra fragilità, gli chiediamo di “non passarci al fuoco della prova” – questo dice il Padre Nostro in aramaico, cioè nella versione, detta Peshitta, che abbiamo nella lingua di Gesù – ma accettando l’idea che nella Sua saggezza e nella Sua libertà possa fare quel che voglia, senza dover rispettare per forza le nostre idee su cosa sia opportuno che lui faccia o no.
Che cosa si va incontro con questo cambiamento? Si dice che la parola indurre in italiano avrebbe mutato significato, con un’accezione di costringere ed è per questo che va eliminata dalla preghiera, lei cosa ne pensa?
Sì può capire che in italiano “indurre” possa anche avere la connotazione negativa dell’ingannare/manipolare, che l’espressione aramaica “far passare/attraversare la prova” non ha. Ma usare il verbo “abbandonare” è un’invenzione che non c’è in nessun modo negli originali, per la quale credo non si possa manco più parlare di traduzione bensì di interpretazione che fa sfumare sia tutti i richiami biblici a prove, sfide e tentazioni sia tutta la “dottrina” correlata, e forse non aiuta a ricordare il rispetto della libertà di Dio che nei nostri confronti ha comunque ogni diritto, anche quello di risvegliare la nostra anima attraverso la tentazione.
Che poi Dio ci induce in tentazione con due scopi: quello di farci vivere la soddisfazione di utilizzare la nostra volontà per il Bene – realizzando e appagando pienamente la nostra natura più profonda – e quello di spingerci, ogni volta un po’ di più, nelle sue braccia, in modo sempre più voluto, consapevole, scelto.
Diciamo che sicuramente è meno impegnativo cambiare un testo banalizzandolo piuttosto che conservare il testo originale e impegnarsi ad esempio attraverso le catechesi a spiegare il vero significato. Credo che si dovrebbe dire ai fedeli che la prova ha un valore positivo e non solo negativo e che noi non possiamo mettere limiti alle modalità di intervento di Dio, secondo nostri criteri “estetici”, tutti piuttosto limitati.
Tirando le somme, qual è la traduzione migliore, secondo lei?
Il concetto base da rendere in italiano deve essere che Dio può anche darci delle prove, mentre suggerire che Dio al massimo potrebbe abbandonarci alla prova (senza, cioè, avere una parte attiva nel crearla, nel portarci ad essa) non rispetta l’intenzione delle parole di Gesù. Una traduzione giusta potrebbe essere “non passarci alla prova”. Al riguardo, la traduzione inglese è più sensata perché salvaguarda proprio questo ruolo attivo di Dio facendo dire “and lead us not into temptation” (non condurci dentro alla tentazione), mentre quella francese, nel tentativo di “scagionare” Dio, nega il ruolo positivo della prova con un “ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare nella tentazione). Come per la versione proposta in italiano.
Ma questa cancellazione non è forse il riflesso dei tempi in cui viviamo?
In effetti, credo che la vera difficoltà di oggi ad accettare questa frase di Gesù stia nel fatto di aver perso la visione positiva della tentazione, delle sfide. In un mondo dove è sempre meno accettata la bocciatura degli scolari che non studiano, anche gli “esami” della vita e le tentazioni appaiono non come occasioni di crescita per mettersi in gioco davvero e liberare tutte le proprie potenzialità, ma come incidenti sgradevoli e incomprensibili. Stessa fine, d’altronde, che ha fatto anche l’idea di inferno.
Lascia un commento
Piaciuto l'articolo? Condividilo!
Articoli correlati
Intervista a un sacerdote – studioso di lingue antiche e docente di archeologia e geografia biblica – che ritiene che l’espressione “Non indurci in tentazione” sia teologicamente corretta.
Partendo dal testo, il verbo greco usato nel vangelo significa indurre o abbandonare?
Il verbo greco εἰσενέγκῃς è formato da εἰσ che significa “in/verso/a” e da φέρω che per un’eccezione (mettiamola così, tanto per semplificare il discorso) diventa ενέγκῃς e che significa guidare/portare/condurre, pertanto letteralmente la parola greca si traduce in italiano con in-condurre ossia indurre.
Ma indurci è teologicamente corretto? È giusto ritenere che Dio ci metta alla prova?
Dio ci mette eccome alla prova perché noi funzioniamo così e dato che vuole farci crescere, non può che stimolare la nostra libertà, provocare la nostra capacità di scegliere, di spingerci ad una presa di posizione sempre più intenzionale, consapevole, voluta. Ed ecco, quindi, la necessità della prova, di una sfida, se si preferisce.
D’altronde Dio mise alla prova Abramo chiedendogli di sacrificare il figlio – l’unico che era riuscito ad avere, tra l’altro – e non è tutto ciò una sollecitazione che oltretutto porta in sé anche il rischio di un rifiuto?
Quindi le prove hanno un ruolo pedagogico?
Abramo superando quella prova si è ritrovato cambiato per sempre, con una capacità di fidarsi di Dio ancora più grande, esiste quindi un uso corretto delle tentazioni nelle quali, anche fosse il diavolo ad agire – sempre per concessione di Dio – uno si ritrova ancora più legato a Dio, se decide di superarla.
Si trova conferma di questo modo di pensare – forse poco naturale per l’uomo d’oggi – in due passi esemplificativi. Il primo è nella lettera ai Romani (8, 28): “Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”. L’altro è di Gesù stesso, pochi giorni prima della Sua crocifissione. Possiamo immaginare il Suo stato d’animo che gli fece dire: “Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!” (Giovanni 12, 27). A ben pensare, queste frasi di Gesù potrebbero essere state anche sulle labbra di Abramo.
In effetti Gesù nell’orto degli ulivi, quando chiede al Padre che gli si allontani il calice, sottintende che Dio lo abbia indotto in una prova e addirittura sulla croce poi dirà “Dio mio, perché mi hai abbandonato”, ma quando Gesù pronuncia quel non indurci nel discorso sulla montagna a cosa si riferisce?
Nella Bibbia vi sono diversi esempi di tentazioni per opera di Dio e Gesù quando insegna a pregare istituendo la preghiera del Padre Nostro si riferisce proprio alla concezione biblica. Quindi cambiare il testo non è renderlo più chiaro, ma è inventare un’altra preghiera, diversa dalla mentalità ebraica, dalla mentalità biblica e dalla mentalità di Gesù, dicendo una cosa anche accettabile ma che non rispecchia quella frase, quel testo e quel concetto.
Sembra di capire che con quell’indurre si salvi anche il nostro libero arbitrio?
Negare che Dio possa o debba tentare significherebbe che noi per principio non siamo liberi di scegliere, non avendo né una spinta ad abbandonare Dio né a risceglierlo in modo più maturo e consapevole.
Infatti, noi veniamo educati da Gesù a un atteggiamento umile in cui, data la nostra fragilità, gli chiediamo di “non passarci al fuoco della prova” – questo dice il Padre Nostro in aramaico, cioè nella versione, detta Peshitta, che abbiamo nella lingua di Gesù – ma accettando l’idea che nella Sua saggezza e nella Sua libertà possa fare quel che voglia, senza dover rispettare per forza le nostre idee su cosa sia opportuno che lui faccia o no.
Che cosa si va incontro con questo cambiamento? Si dice che la parola indurre in italiano avrebbe mutato significato, con un’accezione di costringere ed è per questo che va eliminata dalla preghiera, lei cosa ne pensa?
Sì può capire che in italiano “indurre” possa anche avere la connotazione negativa dell’ingannare/manipolare, che l’espressione aramaica “far passare/attraversare la prova” non ha. Ma usare il verbo “abbandonare” è un’invenzione che non c’è in nessun modo negli originali, per la quale credo non si possa manco più parlare di traduzione bensì di interpretazione che fa sfumare sia tutti i richiami biblici a prove, sfide e tentazioni sia tutta la “dottrina” correlata, e forse non aiuta a ricordare il rispetto della libertà di Dio che nei nostri confronti ha comunque ogni diritto, anche quello di risvegliare la nostra anima attraverso la tentazione.
Che poi Dio ci induce in tentazione con due scopi: quello di farci vivere la soddisfazione di utilizzare la nostra volontà per il Bene – realizzando e appagando pienamente la nostra natura più profonda – e quello di spingerci, ogni volta un po’ di più, nelle sue braccia, in modo sempre più voluto, consapevole, scelto.
Diciamo che sicuramente è meno impegnativo cambiare un testo banalizzandolo piuttosto che conservare il testo originale e impegnarsi ad esempio attraverso le catechesi a spiegare il vero significato. Credo che si dovrebbe dire ai fedeli che la prova ha un valore positivo e non solo negativo e che noi non possiamo mettere limiti alle modalità di intervento di Dio, secondo nostri criteri “estetici”, tutti piuttosto limitati.
Tirando le somme, qual è la traduzione migliore, secondo lei?
Il concetto base da rendere in italiano deve essere che Dio può anche darci delle prove, mentre suggerire che Dio al massimo potrebbe abbandonarci alla prova (senza, cioè, avere una parte attiva nel crearla, nel portarci ad essa) non rispetta l’intenzione delle parole di Gesù. Una traduzione giusta potrebbe essere “non passarci alla prova”. Al riguardo, la traduzione inglese è più sensata perché salvaguarda proprio questo ruolo attivo di Dio facendo dire “and lead us not into temptation” (non condurci dentro alla tentazione), mentre quella francese, nel tentativo di “scagionare” Dio, nega il ruolo positivo della prova con un “ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare nella tentazione). Come per la versione proposta in italiano.
Ma questa cancellazione non è forse il riflesso dei tempi in cui viviamo?
In effetti, credo che la vera difficoltà di oggi ad accettare questa frase di Gesù stia nel fatto di aver perso la visione positiva della tentazione, delle sfide. In un mondo dove è sempre meno accettata la bocciatura degli scolari che non studiano, anche gli “esami” della vita e le tentazioni appaiono non come occasioni di crescita per mettersi in gioco davvero e liberare tutte le proprie potenzialità, ma come incidenti sgradevoli e incomprensibili. Stessa fine, d’altronde, che ha fatto anche l’idea di inferno.
-
Grazie Gabri. Articolo molto interessante e condivisibile. Sul concetto di libertà, però, io sono più vicino alla posizione di San Paolo, che sostiene che la scelta è certamente libera SOLO SE VA NELLA DIREZIONE DEL BENE. Chi decide contro il volere di Dio non esercita la libertà ma la schiavitù verso il demonio.
Grazie Gabri. Articolo molto interessante e condivisibile. Sul concetto di libertà, però, io sono più vicino alla posizione di San Paolo, che sostiene che la scelta è certamente libera SOLO SE VA NELLA DIREZIONE DEL BENE. Chi decide contro il volere di Dio non esercita la libertà ma la schiavitù verso il demonio.