Ieri la pioggia, oggi il sole, ma restano sempre due ore di coda per un frappuccino da Starbucks nella Grande Mela di Milano, in cui la multinazionale ha aperto il suo primo punto vendita.
In coda l’Italia patria del caffé espresso, della moka, della napoletana. L’Italia del genio di Bialetti, ora esposto come reperto d’arte al Moma di New York. L’Italia del ristretto, lungo, macchiato, corretto, marocchino, marocchino con nutella, con solo schiuma, con latte caldo, latte freddo, con una spolverata di cacao. L’Italia che ha inventato i mille modi per bersi quei 20 cl di liquido sacro, se ne stava ammassata in piedi per un coffee.
Proprio noi che non appena prendiamo un aereo o valichiamo le Alpi è subito crisi. E la spremuta di chicchi di Arabica e Robusta – di cui siamo pii devoti – diventa un replicante introvabile. Noi che basta superare Ventimiglia per essere serviti alla parola caffè con mezzo litro, mentre specificando espresso ti arriva un brodino in tazza piccola.
Per gli stranieri il nostro cappuccino è pura magia, lo ordinano anche dopo le 11, con aperitivo, panino e pastasciutta.
Gli italiani sono esterofili nel midollo, sono maledettamente orgogliosi e maledettamente sempre in vendita.
È bastato un what else? pronunciato da George Clooney per spedire dalle credenze alle cantine centinaia di moke. Nelle mattine degli italiani, quanti borbottii sui fornelli e quante urla di “c’è il caffè che sta uscendo” sono stati sostituiti da uno svizzero, rapido, silenzioso, efficientissimo nespresso dalle iridescenti capsule.
Non c’è popolo che sia andato all’estero e che alla seconda generazione non si sia assimilato come sanno fare gli italiani, diluendosi fino all’ultima goccia.
D’altronde si sa, l’Italia ha una grande storia ma ha italiani che non la amano.
Ma cosa volete che sia un frappuccino, quando la terra che ha dato i natali a Dante o a Leopardi si diverte a chiamare le leggi in inglese.
Cosa volete che sia un frappuccino, quando c’è il “Job act”, la “Spending review”, e c’è persino l’ossimoro ministero del “Welfare” della Repubblica.
Cosa volete che sia…l’ammazza-caffè può solo accompagnare!
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Proprio noi che non appena prendiamo un aereo o valichiamo le Alpi è subito crisi. E la spremuta di chicchi di Arabica e Robusta – di cui siamo pii devoti – diventa un replicante introvabile. Noi che basta superare Ventimiglia per essere serviti alla parola caffè con mezzo litro, mentre specificando espresso ti arriva un brodino in tazza piccola.
Per gli stranieri il nostro cappuccino è pura magia, lo ordinano anche dopo le 11, con aperitivo, panino e pastasciutta.
Gli italiani sono esterofili nel midollo, sono maledettamente orgogliosi e maledettamente sempre in vendita.
È bastato un what else? pronunciato da George Clooney per spedire dalle credenze alle cantine centinaia di moke. Nelle mattine degli italiani, quanti borbottii sui fornelli e quante urla di “c’è il caffè che sta uscendo” sono stati sostituiti da uno svizzero, rapido, silenzioso, efficientissimo nespresso dalle iridescenti capsule.
Non c’è popolo che sia andato all’estero e che alla seconda generazione non si sia assimilato come sanno fare gli italiani, diluendosi fino all’ultima goccia.
D’altronde si sa, l’Italia ha una grande storia ma ha italiani che non la amano.
Ma cosa volete che sia un frappuccino, quando la terra che ha dato i natali a Dante o a Leopardi si diverte a chiamare le leggi in inglese.
Cosa volete che sia un frappuccino, quando c’è il “Job act”, la “Spending review”, e c’è persino l’ossimoro ministero del “Welfare” della Repubblica.
Cosa volete che sia…l’ammazza-caffè può solo accompagnare!